La Francia.
Siamo nel mezzo di <ironia> una crisi politico-diplomatica senza precedenti tra l’Italia e il paese gallo </ironia>.
Oggi, Macron non è solo il presidente francese con il più basso indice di popolarità dal 1945: è anche il presidente dell’unico paese europeo che ha fatto un passo, o per lo meno ha promesso di farlo, verso la restituzione delle opere d’arte africane.
Rubate, dicono gli africani e i progressisti nostrani. Prese in custodia e valorizzate, dice buona parte del popolo francese.
Il dibattito è annoso e, come ogni buon dibattito, promette di surriscaldare gli animi. Beh, surriscaldiamoli.
Un museo è un’istituzione dedita a conservare e rendere disponibili al pubblico quelle opere d’arte che un determinato popolo, in una determinata epoca, considera rappresentative.
Si apre la prima polemica. Chi decide cos’è arte e cosa non lo è? La seconda: qual è il miglior modo di portare a compimento un tale progetto? E la terza polemica: di chi sono le opere d’arte africana oggi in Europa?
E qui sono dolori.
Che vuole Macron?
La storia, il diritto internazionale e l’etica congiurano un mix esplosivo. E la Francia non smette mai di partorire storie interessanti, da secoli.
I cugini d’Oltralpe, se il piano di Macron procedesse, restituirebbero le opere dei Dogon a Burkina Faso e Mali.
Una parte dei francesi – che spesso preferisce tacere per non venir dilaniata dai talebani del politicamente corretto – ha dubbi. Legittimi, direi.

Un esempio della cultura Nok, fiorita nell’antichità in quella che oggi è la Nigeria. Misteriosa, in gran parte ancora sconosciuta.
A loro, appare più sensata la posizione della Germania, paese che Macron cercò di trascinarsi sul carro dell’iniziativa.
La Ministra della Cultura germana ha dichiarato che si valuterà la restituzione solo quando il prelievo dell’oggetto abbia violato gli standard legali ed etici vigenti nella colonia all’epoca.
Una bella differenza: non gli sarà venuto in mente a Macron? O forse la sua iniziativa ha altre mire?
Paradossalmente, si finisce per sospettare che una restituzione senza se e senza ma delle opere d’arte, in realtà sia l’ennesimo modo di influire nella politica africana e continuare a trattare le ex colonie da colonie.
Se si stirano i tendini del buonismo acritico degli intellettuali sinistroidi che, ahimè, sprecano fiato come i genitori di due gemellini dilapidano pannolini, allora riusciamo a giustificare qualsiasi iniziativa riparatrice.
Di questo passo, potremmo arrivare a voler sanare i danni che l’Homo Sapiens ha inferto al Neanderthal.
Piglieremmo quegli esseri umani che hanno più sangue Neanderthal degli altri e li risarciremmo della colpa storica di averli bastonati ventimila anni fa.
È ridicolo. Non si sta giustificando il colonialismo né asserendo che fu un regalo all’Africa.
Ma una cosa ben distinta è affermare che ogni singola manifestazione della dinamica coloniale sia stata un esercizio di potere da parte delle potenze occidentali sul popolo africano.
Ma se i già menzionati pensatori da salotto hanno a cuore l’arte, com’è nei loro geni culturali, allora dovrebbero osservare attraverso un altro prisma la questione della restituzione dell’arte africana all’Africa.

Bambole Ndebele, tipiche della tradizione artistica del popolo sudafricano.
Restituire o non restituire?
Se decidiamo che l’arte (o certa arte) appartiene all’umanità intera e non ad una singola collettività, allora dobbiamo accettare che:
- si debba garantire dei requisiti minimi di tutela e valorizzazione delle opere;
- accettare che spesso, quei requisiti non si riesce a garantirli nell’ambiente in cui quell’opera è stata creata.
L’instabilità politica, la criminalità, il mercato nero, la mancanza di mezzi economici ed umani.
Ma anche – udite udite, cari intellettualoidi – l’incuria e l’insensibilità (arte è quello che si considera arte), cospirano affinché spesso il miglior custode di un oggetto non sia chi l’ha prodotto.
È inutile far finta che il Gabon abbia la medesima capacità della Francia, a livello di gestione del patrimonio culturale.
Se una mummia egizia ha un valore, e in qualsiasi parte dell’Occidente diremmo che ce l’ha, farla a pezzi e buttarla in un camino per farne fuoco è un crimine.
Beh, è successo spesso. Se l’obelisco di Axum ha un valore, è da criticare il fatto che una volta restituito dall’Italia all’Etiopia, questo resti per anni abbandonato in una cantina, pasto del muschio.
È comprensibile che i paesi che si ritengono saccheggiati protestino.
È peraltro un fatto che in non pochi casi, abbiano ragione: saranno stati privati degli oggetti in violazione agli standard legali ed etici all’epoca, come dice la ministra tedesca Monika Grütters.
Comprensibili rimostranze, che non esimono tuttavia né la Francia né qualsiasi altro paese dove un tal fenomeno si sia prodotto, dall’analizzare il fenomeno come si deve.

Dettaglio dei Bronzi del Benin, capolavoro del XVI secolo. Per anni, gli storici europei non hanno creduto che una civiltà africana autoctona potesse raggiungere un tale livello.
Analizzare la legittimità del prelievo di ogni singolo oggetto d’arte, è una boutade. Finiremmo per costruire per ogni pezzo un dossier più corposo di una causa di santificazione.
Alcuni dei paesi che coglieranno l’invito di Macron e richiederanno la restituzione formale delle opere, avranno intenzioni nobili:
- usare le opere come volano di sviluppo economico,
- strumento di costruzione dell’identità nazionale, e anche
- come puro svago estetico per la propria popolazione.
Bisognerebbe allora che Macron facesse un passo in più, se davvero ha a cuore l’iniziativa che ha lanciato.
Una possibile soluzione per l’arte africana
Creare delle succursali del Louvre in terra africana, con una gestione museale condivisa, per garantire i massimi standard di protezione e fruizione delle opere e, man mano, educare le maestranze locali a fare altrettanto.
I paesi africani dovrebbero prendere la palla al balzo ed inserire il ritorno delle opere all’interno di una politica di respiro più ampio, che è terribilmente necessaria.
Le emergenze sanitarie, l’esplosione demografica, il sottosviluppo… nessuna di queste sfide si risolverà senza una potente costruzione nazionale.
Senza l’accompagnamento francese, i guai potrebbero essere in vista. Musei come cattedrali nel deserto, o se va male, la vendita al miglior offerente privato grazie a qualche oscuro burocrate autoctono senza scrupoli.
Anni fa, arrivò a Sergio Romano sul Corsera un’interessante domanda da parte di un lettore.
Chiedeva se la Francia potesse arrogarsi il diritto di esporre nei musei patrii le opere italiane trafugate da Napoleone e compagnia nei secoli passati.

Opera dell’artista nigeriano contemporaneo Uche Okeke, che ha stimolato nella seconda metà dello scorso secolo gli studi artistici nel suo paese.
L’ambasciatore-storico rispose laconico: se l’alternativa è darle in gestione ad un museo italiano qualunque, è meglio che rimangano in Francia, perfino in un magazzino.
Se l’affermazione ti sembra provocatoria, pensa che Pompei sta sgretolandosi perché venti corpi amministrativi diversi non riescono a mettersi d’accordo su come frenare l’incuria.
Se Roma non è capace di gestire il proprio patrimonio culturale, figuriamoci Ouagadougou.
Tuttavia, far conoscere l’arte africana fuori dall’Africa potrebbe non essere un’idea così tapina.
Il ruolo dell’arte africana fuori dall’Africa
Un pezzo d’arte angolana, ruandese o sudanese, sono ottimi ambasciatori della propria terra se stanno in Austria, Scozia o Portogallo.
Eppure, la conoscenza dell’Africa, non solo dell’arte ma di tutta la civiltà, in Occidente è ridicola. Crediamo che sia un enorme continente in cui la gente lotta per essere calpestata dagli elefanti o divorata dai leoni.
L’occidentale medio non si interessa di Africa, e gli stakeholders non riescono a rendere l’Africa interessante al grande pubblico.
L’Africa non solo è stata la culla del genere umano: ha tenuto attaccata l’Europa ad un cordone ombelicale da che mondo è mondo.
Tremila anni fa, nell’attuale Niger, lavoravano il ferro. Gli etiopi dell’antichità trattavano con greci e fenici. I romani erano di casa.
I precedentemente citati Dogon del Mali hanno tutto il diritto d’essere fieri delle proprie origini. È solo uno dei mille esempi possibili circa la ricchezza culturale africana.
Per i dogon, ogni elemento architettonico, dal singolo componente della casa all’intero piano urbanistico del villaggio, ha un significato simbolico associato alle credenze religiose.
Un’unità urbanistica dogon, fatta di più edifici, simbolizza un uomo sdraiato sul fianco. Il camino è la testa. Le dispense ne sono le braccia. Le stalle le gambe. Le officine centrali la pancia.
Così, l’unità dogon è un uomo che procrea.
C’è un’abbondanza incredibile, in Africa. Il popolo Chokwe dell’Angola produce eccezionali sculture lignee tipo questa:

Una statua di legno del popolo chokwe (Angola), rappresentando la maternità.
Città come Timbuctú o Gao, personalità come Mansa Mussa o Shaka, le pitture rupestri di Ajjer, i monili dei Gikuyu o le elaborate acconciature dei Chokwe, gli indumenti da ballo dei Tutsi, i paramenti dei cavalli dei Fulani: c’è un universo da conoscere qui.
Ma non c’è da cercare solo nei libri di storia o folklore.
Oggigiorno, il continente intero è percorso da un fremito artistico affatto secondario a quello italiano ed occidentale.
Il cinema, la musica, la fotografia, la scultura, la pittura: ho enormi dubbi su tutto quanto sia arte contemporanea, ma il fermento è certamente palpabile qui.
Quindi, occorre prima analizzare in che modo si servono meglio gli interessi dell’Africa, dando chiaramente il protagonismo agli africani.
In un secondo momento, analizzare qual è il modo migliore di usare l’arte africana per raggiungere gli obiettivi stabilitisi.
E purtroppo, i catto-terzomondisti fanno di nuovo un pessimo favore a quei deboli che pretendono di difendere, come le elite estrattive africane autoctone.
Speriamo di riuscire a proteggere gli africani dalle grinfie di ambedue.
Bibliografia Consigliata Circa l’Arte Africana
Arte africana, di Ezio Bassani per Skira
Arte africana, di Ivan Bargna per Jaca Books
L’arte africana contemporanea, di Jean-Loup Amselle per Bollati Boringhieri
Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche agli stati nazionali, di Calchi Novati e Valsecchi per Carocci
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