Se oggigiorno abbiamo il legittimo dubbio che nei ristoranti cinesi quello che ci danno sia cibo occidentalizzato, dovremmo sospettare anche un’altra cosa:
Il cinese medio tra noi, dovrebbe indignarsi al vedere la gastronomia del suo paese sconvolta ad uso e consumo dei palati italiani.
Come ci succede, quando andiamo fuori dal Belpaese e troviamo ristoranti che usano il ketchup al posto del sugo di pomodoro, che non hanno la minima idea di cosa significhi al dente, o che potrebbero mettere sulla pizza tanto della mozzarella quanto dei marshmallows.
Che schifo.
Sono obbrobri che attentano all’orgoglio culinario nazionale, ma disgraziatamente si avvicinano al gusto del paese dove stanno.
Una riflessione analoga deve aver portato nel 1895 al militare e diplomatico Tcheng Ki-tong a correggere le storture gastrostoriche che dovevano avergli saturato la pazienza.
Tcheng Ki-Tong (1851 – 1907) anche noto come Chen Jitong, o in madrepatria come 陳季同, entra a 16 anni nella scuola militare gestita dai marinai francesi.
I galli gestiscono il porto di Fuzhou, dove avevano un arsenale, un distaccamento di personale e una scuola. Nell’istituto, tra le altre cose insegnano pure la lingua francese.
Sarà 9 anni dopo, nel 1876, quando farà rotta su Parigi, al seguito di una missione diplomatica. Dopo qualche anno, diventa l’addetto militare dell’ambasciata cinese a Parigi.
Nella Ville lumière, entra presto nel gotha. Grande visibilità gli viene data dal suo primo libro, Les Chinois vus par eux-mêmes, I cinesi visti da loro stessi. Lo scrive in francese, primo tra i suoi connazionali.
Nel libro, uno dei capitoli è dedicato a difendere le prelibatezze del suo paese, che vedeva ignorate o volgarizzate nelle sue conversazioni con i francesi.
Ci sono così tanti orrori della cucina cinese che penso sia indispensabile dedicare un capitolo alla riabilitazione della nostra arte culinaria.
Il libro, come detto, è un successone. Ma lascia sgomento anche il lettore contemporaneo, con il profluvio di informazioni che ormai abbiamo dalla Cina.
Premette il militare e diplomatico cinese:
I miei concittadini non mangiano le cose straordinarie che certi viaggiatori sono lieti di dire.
Ma dicci, Tcheng Ki-Tong: che mangiate in Cina?
Il pasto ordinario consiste di otto piatti: due di verdura, uno di uova, un altro di pesce, uno di frutti di mare, uno di pollame e due di carne: maiale e capra al sud, pecora e manzo al nord.
Inoltre, una grande ciotola di zuppa, accompagnato tutto il riso, che nelle nostre tavole sostituisce il pane. E il distillato di riso è il nostro sostituto per il vino e il té, che sono serviti nei posti solo in occasioni davvero speciali.
Beh, dire che si trattasse di un’abbuffata pantagruelica non è esagerato. Viene il dubbio se la sua condizione privilegiata avesse qualcosa a che fare con quest’abbondanza, e con l’economicità del cibo che pure sottolinea spesso Tcheng Ki-Tong.
Un lavoratore che guadagni un franco, o dieci penny al giorno, può mantenere negli agi a una moglie e a due bambini, e riuscire oltretutto a risparmiare la metà dei suoi introiti.
Non si lascia sfuggire una stoccata al parigino medio, accusato da lui di voler mangiare pietanze francesi durante il suo soggiorno in Cina. Che dire… passano gli anni, e certe abitudini si mantengono.
Il menù è ancora più ricco quando si tratta di uscire a cena con gli amici. Tieniti forte:
– quattro piatti di antipasti;
– quattro di frutta essiccata;
– quattro di frutti fresca, a seconda della stagione;
– quattro grandi fiamminghe, ciascuna composta da un’anatra intera, pinne di squalo, nidi di rondine e altri tipi di carne ancora;
– quattro fiamminghe con pollame, frutti di mare e carni;
– quattro piccoli fiamminghe o recipienti con funghi, spugnole (che chiamiamo orecchie della foresta), riso degli immortali (che è il nome che diamo ad un’altra specie di fungo) e germogli teneri di bambù;
– quattro grandi piatti di pesce, stelle di mare e montone.
E così questi ultimi quattro piatti finiscono il pasto. La convenzione vuole che nessuno li tocchi, e il loro arrivo a tavola è un segnale che invita ad alzarsi.
Tcheng Ki-Tong tiene comunque a rassicurarci: in caso di cene di gala, il menù è molto più ricco.
Sono inclusi due arrosti, serviti a metà cena insieme a dei panetti cotti a bagnomaria.
Il cameriere toglie la pelle dall’arrosto, ne taglia una parte e lo serve al commensale in un piattino. Un altro cameriere offre della grappa di riso in una piccola tazza.
La descrizione della liturgia delle cene di gala e dei piatti che l’accompagnano, sono all’altezza dei nostri celebri Pellegrino Artusi ed Antonio Latini.
In tutto il cibo le torte si alternano a piatti forti. Con le torte salate, che hanno carne, viene presentata una tazza di brodo di pollo e con i dolci, latte di mandorle. Devo anche aggiungere che il cibo inizia con gli antipasti e i frutti e termina con una fonte di riso che non viene quasi mai assaggiata. (NdR: ah no? Uhm, che strano.)
Ma ecco che arriva una delle cose che a noialtri occidentali, ancora oggi, sorprendono: le uova conservate.
Parlando della grande passione per gli antipasti, le cita e spiega:
(…) grazie alla loro patina di calce, si manterranno per lunghissimo tempo; dopo 25 anni, hanno un eccellente sapore, dopo aver subito un tipo di trasformazione che ne trasforma il giallo in una sorta di marrone scuro, e il bianco pure in marrone, assomigliando a gelatina di carne. Ne ho fatto assaggiare ad alcuni miei amici europei, e ne sono stati estasiati.
Beh, in tutto e per tutto, la cucina cinese sembra molto più ricca di tante che oggi sono di moda, come la cucina molecolare o anche la scandinava. Anni luce dalla cucina degli Skogfinn, di sicuro.
Mancava uno dei grandi miti da sfatare. L’appetito cinese per cani e gatti.
Tcheng Ki-Tong ne parla a fine capitolo, aggiungendo il curioso aneddoto che gli tocca vivere nella capitale francese nel 1878, poco dopo l’arrivo della sua Legazione diplomatica.
Una contessa polacca di sangue molto blu, aveva dodici piccoli cani cinesi. Si presenta un giorno all’ambasciata, avvisando il malcapitato Tcheng che avrebbe incendiato l’edificio, se un giorno uno dei suoi dodici affezionati animaletti le fosse venuto a mancare.
Patti chiari, amicizia lunga, caro Tcheng.
E nonostante le abbondanti traduzioni in non poche lingue, la fama del cinese magnacani e magnagatti (un vicentino dell’Asia, insomma), non accenna a dissiparsi.
Eppure, visitare la Cina e provare le specialità in loco è una cosa da fare, almeno una volta nella vita.
Letture consigliate su Tcheng Ki-Tong e sulla Cina
Cina. Una Storia Millenaria, di Kai Vogelsang
Descrizione della Cina, di Matteo Ricci
L’Impero del Mandato Celeste. La Cina nei Secoli XIV-XIX, di Paolo Santangelo
Lascia un commento